LA STORIA
DI MONTEGIORDANO
Il primo nucleo abitativo di cui si ha traccia risale al IV
secolo a.C. Abbiamo quindi tracce di Montegiordano già in età ellenistica. Sul
pianoro di Menzinara sono stati ritrovati i resti di una fattoria
ellenistico-romana, datata dalla seconda metà del IV secolo a.C. ai primi del
III secolo a.C. Ma il territorio montegiordanese, doveva essere frequentato già
dal VI secolo a.C. Lo storiografo dell'alto Ionio, Giorgio Toscano, nato ad
Oriolo nel 1630, nella sua Cronaca narra, infatti, che Pitagora di Samo,
durante i suoi spostamenti tra Crotone e Taranto, fosse solito riposarsi e
ristorarsi a Montegiordano, nella località Castello. L'attuale paese di
Montegiordano risulterebbe fondato fra il 1645 e 1649. La comunità però, aveva
origini più antiche e viveva a Piano delle Rose a 3 km dal mare (contrada
Mandrone) proprio sopra il pianoro di Menzinara. Purtroppo, gli abitanti, a
causa delle frequenti incursioni turche, di cui erano facile bersaglio per la
vicinanza al mare, furono costretti ad abbandonare l'antica patria dove già
allora sorgeva il vecchio castello di Montegiordano, di cui non si hanno
notizie precise e attendibili perché distrutto dalle continue razzie turche.
Essi si ritirarono nell'interno, rifugiandosi ad Oriolo e nei paesi vicini. La
vecchia patria non fu mai dimenticata e nel 1649, il feudatario Alessandro
Pignone del Carretto, Marchese di Oriolo, soddisfatto delle buone rendite che
già gli venivano da Alessandria del Carretto, concesse a un gruppo di pastori e
di agricoltori il terreno di Calopardo per 20 ducati all'anno. Qui, in ricordo
della vecchia patria, edificarono la nuova con il nome di Montegiordano.
(Secondo la storia popolare, invece, il nome pare lo avesse dato un prete di
nome Giordano). La comunità insediatasi nel nuovo territorio comincia a
lavorare alacremente vivendo dei prodotti che traeva dalla terra. Il marchese
Pignone del Carretto si dimostrò un ottimo amministratore che lasciò vivere
tranquilla la nuova comunità e gli diede la possibilità di crescere e
progredire. Nel 1748 questa comunità fu soggetta al barone Giuseppe de Martino.
Solo nell'agosto del 1807 venne abolito il regime feudale e a frazionare il
territorio di Montegiordano venne un funzionario da Napoli di nome Giovanni
Gentile.
L’ARCHEOLOGIA ANCORA POCO SFRUTTATA A LIVELLO TURISTICO,
ANZI NON SFRUTTATA.
In località Menzinara (m. 99 s.l.m.), che sorge sulla cima
di una collina isolata ai lati da corsi d'acqua e domina un ampio tratto del
litorale ionico, negli anni 1980/81 si è effettuato un vero e proprio scavo
archeologico che ha portato alla luce una fattoria lucana utilizzata per tutta
la seconda metà del IV secolo a.C. L'edificio scavato aveva forma quadrata di m
22 per lato, con sette grandi vani di varia ampiezza disposti attorno ad un
cortile centrale scoperto collegato con l'esterno mediante un largo corridoio
ad L; l'ingresso era nell'angolo sud-ovest. L'edificio è costruito con ciottoli
di fiume uniti a secco, che compongono lo zoccolo delle pareti; l'alzato era in
mattoni crudi; la copertura era di tegole piane e coppi. Sul lato occidentale
del cortile le tegole di gronda erano decorate con teste di leone. Sul lato
sud-ovest, probabilmente, si elevava un piano rialzato, al quale si accedeva
mediante una scala di legno. Per quanto riguarda la destinazione degli ambienti
si può individuare, sul lato orientale, una cantina o vano destinato alla
lavorazione e conservazione delle derrate alimentari; vi sono stati ritrovati,
infatti, una pressa quadrangolare in arenaria, frammenti di pithoi fittili e di
anfore ad impasto. Sul lato settentrionale era identificabile, nel vano
centrale affiancato da due vani minori, la cucina. È, infatti, evidente la
presenza di un focolare nell'angolo sud-ovest, oltre ad un'alta percentuale di
frammenti di vasellame da mensa ad impasto e a vernice nera, ad utensili in ferro
quali alari di camino e lame di coltelli vari. Pesi da telaio (circa 85) e un
louterion fittile con sostegno completavano l'arredo. Nel vano nord-ovest,
anch'esso comunicante con la cucina e fornito di focolare, sono state
rinvenute, oltre al vasellame alcune statuette fittili (figure femminili in
trono). Il vano di forma rettangolare, sul lato sud-ovest, doveva essere un
ambiente di “rappresentanza”; era, infatti, rivestito di intonaco biancastro e,
al suo interno, sono stati ritrovati due louteria fittili su sostegno decorati
ad impressione, frammenti di un cratere a figure rosse, una grande quantità di
ceramica a vernice nera (piatti, coppette e skyphoi) e recipienti ad impasto
(teglie e bacili). Abbandonato nel cortile, in prossimità della cucina, è stato
ritrovato un piccolo ripostiglio monetale composto da 12 pezzi (3 argenti di
Crotone ed Eraclea e 9 bronzi di Metaponto). All'esterno, inoltre, erano
presenti fornaci per la cottura di recipienti ceramici. Sembra evidente che la
struttura fosse abitata da una famiglia di agricoltori dediti alla pastorizia e
alla filatura (vedi pesi da telaio), la cui appartenenza all'ethnos lucano è
dimostrata dal nome osco (NOVIOS OPSIOS) graffito in lettere greche sul fondo
esterno di due brocche. Nei primi decenni del III secolo a.C., il sito fu
bruscamente e definitivamente abbandonato, presumibilmente, perché si trovava
sulla direttrice di marcia delle truppe romane, che, muovendo da Thuri, si
scontrarono ad Eraclea con Pirro, alleato dei Lucani (Battaglia di Heraclea 280
a.C.).
A Piano delle Rose
(località Castello), che si trova sopra la Marina di Montegiordano, sorge un
castello seicentesco, costruito dai Pignone del Carretto, come residenza
invernale e di caccia. Il castello è dotato di vasti locali, una volta adibiti
a stalle e magazzini, disposti attorno ad un bel cortile pavimentato a
massicciata, con pozzo centrale. Una scala ed un ampio arco a tutto sesto,
danno accesso al piano superiore. Poco più a valle del castello, sorge quella che
una volta era la cappella gentilizia dedicata alla Madonna del Carmine. Questa
cappella, abbandonata perché fatiscente, risale al principio del secolo scorso,
e fu ricostruita in seguito allo sbancamento di un'altra precedente, la quale
ne sostituiva ancora un'altra. Le diverse riedificazioni, dovute ai continui
smottamenti del terreno, hanno portato ad un trapianto topografico radicale per
cui l'attuale Cappella del Carmine è stata posta molto più a nord del castello.
Nella località Piano delle Rose, alcuni studiosi, propongono di identificare il
monastero di S. Anania e il castello di Petra Ceci, nominati in una carta del
1015 relativa ai possessi della chiesa di S. Pietro di Brahalla, presso Oriolo:
in tale documento Nicone, monaco e il figlio Ursulo, turmarca di Oriolo, donano
a Luca, egumeno di S. Anania, il suddetto castello, perché, in caso di
incursioni degli Infedeli (incursioni saracene 916-1048), i monaci ed il popolo
vi si possano ritirare. Se così fosse, sul Piano delle Rose, già all'inizio dell'XI
secolo, ci sarebbe stato un abitato accentrato attorno ad un castello e a un
monastero greco. L'attuale castello seicentesco, quindi, sarebbe stato
ricostruito sui resti di quello più antico. Nella sua Cronaca (scritta nel
1695), Giorgio Toscano, ricorda che in questa località, vi era “un castello
forte e munito di cui oggi non si riconoscono altre vestigia in fuori di alcune
mura dirute”. In un altro passo, egli sostiene che il Castello della Marina,
dove i Pignone solevano risiedere in alcuni mesi dell'anno per deliziarsi nelle
bellissime cacce di fiere selvatiche “era quasi del tutto diruto, ma poi
rifatto e ristaurato dai suoi Posteri”. Purtroppo, il Toscano non dà datazioni,
ma, da quel che scrive si evince chiaramente che il castello, esistente all'epoca
sua, era stato ricostruito dai Pignone sui ruderi di uno precedente.
Il Cementificio è una vecchia fabbrica, un opificio che
vediamo ergersi di fianco la strada statale 106 Jonica, a ridosso, lato monte,
di una pineta lussureggiante, che fortunatamente lo avvolge, in parte, nel suo
intenso verde, quasi a volerlo nascondere. A ciò ha pensato, negli anni, il
Consorzio di bonifica di Trebisacce. Ridotto ad un ammasso di ferraglie e
saccheggiato dai ladri del ferro e non solo, l'ex cementificio Zippitelli, è
rimasto sempre lontano dall'attenzione di tutti. La nascita del cementificio di
Montegiordano è collegata all'abbondante presenza in loco della pietra marna,
roccia calcarea contenente una sensibile quantità di argilla, utilizzata come
miscela nella formazione del cemento Portland, previa cottura a circa 1500 °C.
La produzione giornaliera era di circa 600 quintali. Le cave da cui venivano
estratte queste rocce cristalline erano ben conosciute dagli industriali della
vicina Puglia, tanto è vero che, sin dal 1914 le trasportavano presso i propri
cementifici di bari e Taranto. Da qui la scesa in campo di un ingegnoso
industriale di Bari, tale Michele Zippitelli, che nel 1927 avviò la costruzione
del cementificio. Un complesso industriale di tutto rispetto costruito nella
Marina di Montegiordano, poco distante dalle acque del mar Ionio, su un'area di
oltre 30/40mila m². La scelta di quest'area per impiantare lo stabilimento è
stata senz'altro condizionata dalla presenza di importanti vie di
comunicazioni, quali la ferrovia Sibari- Metaponto e la strada statale 106
Jonica, ma anche perché si poteva disporre di un buono quantitativo d'acqua
proveniente dal canale Vittoria, attiguo allo stabilimento. La pietra marna
estratta dalle cave veniva prelevata e trasportata da una distanza di oltre tre
chilometri mediante teleferica azionata da un motore termico. Con l'avvento
della seconda guerra mondiale il cementificio Zippitelli cessò di produrre e
solamente nel 1947 riaprì i battenti. Come riferisce la dottoressa Antonella La
Manna che ha studiato da vicino tutte le fasi evolutive di questo cementificio
al punto da presentare la sua tesi di laurea in economia e commercio presso
l'Università di Bari, anno accademico 1999/2000, dal titolo: L'Economia di
Montegiordano e il suo movimento migratorio dagli anni ’50 alla metà degli anni
‘70”. La sua riapertura diede un vero impulso non solo all'economia
montegiordanese ma anche a quella di tutta la zona limitrofa offrendo occasione
di lavoro soprattutto per quanti ritornati dalla guerra si trovarono ad essere
senza un'occupazione. Tale industria aveva impiegato un numero molto elevato di
operai (oltre 120) diventando la fonte di reddito per molte famiglie Montegiordanesi
nonché per tanta altra gente residente nei paesi vicini. Inoltre, esso aveva
dato impulso a diverse attività marginali che avevano cominciato a sorgere in
Montegiordano marina. La pietra marna, infatti, veniva sottoposta ad un altro
processo di lavorazione dal quale si ottenevano portali, balconi che venivano
utilizzati nella costruzione di abitazioni. Se da un lato, quindi, il
cementificio contribuiva più di ogni altra risorsa a risollevare le condizioni
miserabili della popolazione Montegiordanese, dall'altro l'esistenza di tale
industria non modificava sostanzialmente quella che era la tradizioni
agricola-artigianale del paese; tanto è vero che accanto al ”popolo dei
minatori”, un'altra parte rilevante della popolazione Montegiordanese si
dedicava alle numerose attività artigianali nonché all'attività agricola. I
Montegiordanesi, infatti, hanno sempre dimostrato un vivo interesse per la
terra e così come sono proprietari di case, che rappresentano il loro primo
tipico investimento, sono stati anche proprietari terrieri e coltivatori della
loro terra. Una volta ripresa la vita e il lavoro nelle campagne circostanti il
paese, l'agricoltura divenne ben presto il settore principale dell'economia
locale. Il tipo di agricoltura prevalente era l'agricoltura promiscua, dove la
promiscuità era rappresentata dalla presenza contemporanea nelle più diverse
colture, ad esempio, la coltivazione dell'ulivo, considerata la più importante
per l'economia familiare, si alternava con alberi di fico, di melo, di pero e più
frequentemente con spazi di seminato cui una buona parte era riservata al
frumento. Un'economia dunque, insieme agricola e pastorale, molto povera e
sufficiente appena al consumo familiare alla quale si affiancavano altre
attività quali quelle artigianali. A tutti gli effetti però, l'unica fonte di
risorsa certa era il lavoro al cementificio. La richiesta pressante della
domanda di cemento proveniente da ogni dove, coincidente con la nascita della
Cassa per il Mezzogiorno, impegnata nella ricostruzione di strutture vecchie
danneggiate dalla guerra e di altre nuove, ha imposto al proprietario del
cementificio la ristrutturazione e la sostituzione dei vecchi macchinari con
altri nuovi. Tutto ciò, ovviamente, richiedeva la riconversione dei macchinari
alimentati da energia termica, ovvero combustibile, con altri da alimentare con
energia elettrica che aveva meno incidenza sul costo del cemento. Da qui la
richiesta di una forte fornitura di energia elettrica più volte invocata e mai
soddisfatta, al punto che il proprietario, nei primi mesi del 1955, chiude per
sempre i battenti. A nulla è valsa la delibera del Consiglio comunale di
Montegiordano del 21 ottobre 1955 con la quale invitava lo Stato ad intervenire
per non mettere sul lastrico oltre cento famiglie e per non disperdere le
specializzazioni conseguite nel corso degli anni dagli addetti alla manovra di
complicati macchinari. Ogni appello è stato disatteso. Una vicenda assurda e
sconcertante che determinò miseria ed emigrazione immediata. Infatti, da 3213 abitanti
nel 1951, il massimo picco raggiunto nella storia di questo piccolo paese, si è
passato a 2.200 abitanti ed oggi ancor di meno. Tra gli atti parlamentari della
Camera dei Deputati, troviamo due interpellanze presentate rispettivamente
dall'onorevole Giacomo Mancini in data 13 dicembre 1955 e dall'onorevole Dario
Antoniozzi in data 17 dicembre del 1955. Entrambe hanno stesso contenuto che
può riassumersi come di seguito: “Il sottoscritto chiede d’interrogare il
ministro dell’industria e del commercio e il ministro presidente del Comitato
dei ministri per la Cassa del Mezzogiorno, per sapere se sono informati sulle
ragioni che hanno determinato la chiusura del cementificio Zippitelli di
Montegiordano (Cosenza) e per sapere quali urgenti provvedimenti intendano
adottare nei confronti della società erogatrice dell’energia elettrica
responsabile principale della chiusura del cementificio; che, proprio nel
momento in cui si parla di industrializzazione del Mezzogiorno, ha causato un
ulteriore impoverimento del settore industriale calabrese e la conseguente
dilatazione della disoccupazione. L’interrogante chiede la risposta scritta
(17667)”. Tutto qua la storia del cementificio di Montegiordano e la sua
economia. Pur nella loro autorevolezza, queste interpellanze non sortirono
alcun effetto e così il proprietario Micelle Zippitelli, che per un certo verso
aveva cambiato il volto di questo piccolo centro calabrese, iniziò a licenziare
via via tutti gli operai i quali dovettero emigrare verso il nord Italia.
La storia
del nostro paesello dimostra come in passato hanno saputo sfruttare molto più
di noi le potenzialità di Montegiordano.
Oggi purtroppo
invece di amplificare il nostro patrimonio archeologico e culturale, lo abbiamo
depresso, purtroppo Montegiordano paga più di altri paesi la mediocrità della
classe dirigente calabrese. ( REGIONE-PROVINCIA-COMUNE )
Invece di
esaltare la bellezza e la storia di una terra fantastica, pensano al loro
piccolo orticello, lasciando alle future generazioni solo macerie.
Giuseppe
Salerno